In realtà il razzismo (e la xenofobia di tutti i tipi) sembrerebbe non avere una base genetica o evolutiva, ma è invece principalmente un tratto psicologico – più specificamente, un meccanismo di difesa psicologica generato da sentimenti di insicurezza e ansia.
Alcune prove di questa interpretazione provengono dalla teoria psicologica della “gestione del terrore“: le ricerche hanno dimostrato che quando alle persone viene ricordata la propria mortalità, provano un senso di ansia e insicurezza, a cui rispondono diventando più inclini alla ricerca di status, al materialismo, all’avidità, al pregiudizio e all’aggressione. Sono più propensi a conformarsi agli atteggiamenti culturalmente accettati e ad identificarsi con i loro gruppi nazionali o etnici. Secondo la teoria della gestione del terrore, la motivazione di questi comportamenti è quella di migliorare il senso di importanza o valore di fronte alla morte, o di acquisire un senso di sicurezza o appartenenza, come un modo di proteggersi contro la minaccia della mortalità. Il razzismo sarebbe quindi una risposta legata ad un senso più generale di insignificanza, disagio o inadeguatezza.
Se una persona si sente insicura o priva di identità, potrebbe avere il desiderio di affiliarsi a un gruppo per rafforzare il proprio senso di identità e trovare un senso di appartenenza. Essere parte di qualcosa di più grande di loro e condividere una causa comune con gli altri membri del loro gruppo li fa sentire più completi e significativi.
Non c’è niente di sbagliato in questo di per sé.
Tuttavia, questa identità di gruppo può portare ad un secondo stadio: ostilità verso altri gruppi. Per rafforzare ulteriormente il loro senso di identità, i membri di un gruppo possono sviluppare sentimenti ostili verso altri gruppi. Il gruppo può diventare più definito e coeso nella sua alterità – e nel suo conflitto con – altri gruppi, eliminando quindi l’empatia dai membri di altri gruppi, limitando la loro preoccupazione e compassione ai loro simili. Possono agire con benevolenza verso i membri del proprio gruppo, ma essere crudeli e senza cuore con chiunque altro.
Ciò significa che le persone non sono più percepite in termini di personalità o comportamento individuale, ma in termini di pregiudizi generalizzati e ipotesi sul gruppo nel suo complesso.
E infine – entrando nell’estremo più pericoloso e distruttivo del razzismo – le persone possono proiettare i propri difetti psicologici e le proprie mancanze personali su un altro gruppo, come strategia per evitare responsabilità e colpa.
Altri gruppi diventano capri espiatori e, di conseguenza, possono essere puniti, persino attaccati o uccisi, per vendicarsi dei loro presunti crimini.
Gli individui con forti tratti di personalità narcisistica e paranoide sono particolarmente inclini a questa strategia, poiché non sono in grado di ammettere eventuali difetti personali e sono particolarmente inclini a demonizzare gli altri.
In altre parole, il razzismo – e la xenofobia di qualsiasi tipo – è un sintomo di cattiva salute psicologica. È un segno di mancanza di integrazione psicologica, mancanza di autostima e sicurezza interiore. Le persone psicologicamente sane con un senso stabile di sé e una forte sicurezza interiore non sono razziste, perché non hanno bisogno di rafforzare il senso di sé attraverso l’identità di gruppo.
La xenofobia non è l’unica risposta possibile all’insicurezza o al senso di mancanza, naturalmente; assumere droghe, bere pesantemente e diventare ossessivamente materialisti o ambiziosi possono essere altre risposte.
Le persone psicologicamente sane non hanno quindi bisogno di ricorrere al razzismo.
È anche utile ricordare che non esiste una base biologica per dividere la razza umana in “razze” distinte. Ci sono solo gruppi di esseri umani – tutti originariamente originari dell’Africa – che hanno sviluppato nel tempo caratteristiche fisiche leggermente diverse mentre si recavano e si adattavano a climi e ambienti diversi. Le differenze tra noi sono molto sfocate e molto superficiali. Fondamentalmente esiste una sola una razza umana!
Articolo a cura di Il Percorso Profondissimo
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Leggo attentamente ma, ultimamente, un'idea riguardo al razzismo, mi gira per la mente. Si tratta di un'idea che impone, riguardo all'argomento trattato, il razzismo, delle corresponsabilità a carico delle vittime del razzismo, e delle quali non si tiene conto alcuno. In ambito psicologico sappiamo tutti benissimo che esistono dei ruoli che "giocano" un role-play contrapposti. Quello della vittima e del carnefice è sicuramente uno dei più conosciuti. A questo proposito esprimo chiaramente che il sunto dell'idea che da qualche tempo mi ronza per la mente è proprio questa: quali sono le responsabilità di coloro che si sentono vittime in un contesto sociale razzista? Dichiararsi vittime porta alla conquista di benefici o diritti (sociali in primis) che in verità, per una persona psicologicamente adulta, dovrebbe già averne una ovvia consapevolezza. Invece, per le vittime di razzismo, sembra che tale consapevolezza o maturazione psicologica, debba passare attraverso un contrasto/rifiuto/rivendicazione/accettazione. Se guardiamo alla storia essa ci riflette immediatamente tale dinamica. Grazie per la pubblicazione.