Il Dio Ganeśa, nella religione dell’antica India è il Signore della devozione e dell’amore universale, della nascita e della conoscenza primordiale
Ganeśa è anche chiamato Ganapati, che vuol dire «Maestro d’intelligenza e saggezza»; un altro suo nome è Vinayāka: «colui che rimuove gli ostacoli dal cammino spirituale». Vittorioso su ogni difficoltà che separi dalla verità, Ganeśa cavalca trionfante un topolino, simbolo, questi, del buio dell’ignoranza, ma anche di qualcosa d’altro che spiegheremo in seguito.
Presso la religione induista, Ganeśa (dal sanscrito gana – “moltitudine”, e isha – “signore”, lett. “Signore di tutti gli esseri”), spesso anglicizzato in Ganesha o Ganesh, è una delle rappresentazioni di Dio più conosciute e venerate; figlio primogenito di Śiva e Parvati, viene rappresentato seduto, con una gamba sollevata da terra e ripiegata sull’altra. Tipicamente, il suo nome è preceduto dal titolo di rispetto induista, Śrī. Il culto di Ganeśa è molto diffuso, anche al di fuori dell’India; i devoti di Ganeśa si chiamano Ganapatya.
Come per ogni altra forma con la quale l’Induismo rappresenta Dio, inteso come l’aspetto personale di Brahman (detto anche Ishvara, il Signore), anche la figura di Ganeśa è un archetipo carico di molteplici significati e simbolismi che esprimono uno stato di perfezione, e il modo per raggiungerla; Ganeśa è infatti il simbolo di colui che ha scoperto la Divinità in sé stesso.
Egli rappresenta il perfetto equilibrio tra energia maschile (Shiva) e femminile (Shakti),(https://ilpercorsoprofondissimo.blogspot.it/2015/02/il-tantra-ed-i-suoi-due-principali.html) ovvero tra forza e dolcezza, tra potenza e bellezza; simboleggia inoltre la capacità discriminativa che permette di distinguere la verità dall’illusione, il reale dall’irreale. Una descrizione di tutte le caratteristiche e gli attributi di Ganeśa si può trovare nella Ganapati Upanisad (una Upanisad dedicata a Ganeśa) del rishi Atharva, nella quale Ganeśa è identificato con il Brahman e con Ātman. In questo Inno Vedico, inoltre, è contenuto uno dei mantra più famosi associati a questa divinità: Om Gam Ganapataye Namah (lett. Mi arrendo a Te, Signore di tutti gli esseri).
Nei Veda si trova anche una delle preghiere a Ganeśa più salmodiate, che costituisce l’inizio del Ganapati Prarthana: Om gananam tva ganapatigm havamahe kavim kavinamupamashravastamam jyeshtarajam brahmanam brahmanaspata a nah shrunvannutibhih sida sadanam (Rig Veda 2.23.1)
In termini generali, Ganeśa è una divinità molto amata ed invocata, poiché è il Signore del buon auspicio che dona prosperità e fortuna, il Distruttore degli ostacoli di ordine materiale o spirituale; per questa ragione se ne invoca la grazia prima di iniziare una qualunque attività, come ad esempio un viaggio, un esame, un colloquio di lavoro, un affare, una cerimonia, o un qualsiasi evento importante. Per questo motivo è tradizione che tutte le sessioni di bhajan (canti devozionali) comincino con una invocazione a Ganeśa, Signore del “buon inizio” dei canti. È inoltre associato con il primo chakra, che rappresenta l’istinto di conservazione e sopravvivenza, la procreazione ed il benessere materiale. Dio degli inizi, quindi.
Ogni elemento del corpo di Ganeśa ha una sua valenza ed un suo proprio significato:
la testa d’elefante indica fedeltà, intelligenza e potere discriminante;
il fatto che abbia una sola zanna (e l’altra spezzata) indica la capacità di superare ogni dualismo;
le larghe orecchie denotano saggezza, capacità di ascolto e di riflessione sulle verità spirituali; la proboscide ricurva sta ad indicare le potenzialità intellettive, che si manifestano nella facoltà di discriminazione tra reale ed irreale;
sulla fronte ha raffigurato il Tridente (simbolo di Śiva), che simboleggia il Tempo (passato, presente e futuro) ne attribuisce a Ganeśa la padronanza;
il ventre obeso è tale poiché contiene infiniti universi, rappresenta inoltre l’equanimità, la capacità di assimilare qualsiasi esperienza con sereno distacco, senza scomporsi minimamente; la gamba che poggia a terra e quella sollevata indicano l’atteggiamento che si dovrebbe assumere partecipando alla realtà materiale e a quella spirituale, ovvero la capacità di vivere nel mondo senza essere del mondo;
le quattro braccia di Ganeśa rappresentano i quattro attributi interiori del corpo sottile, ovvero: mente, intelletto, ego, coscienza condizionata; in una mano brandisce un’ascia, simbolo della recisione di tutti i desideri, apportatori di sofferenza; nella seconda mano stringe un lazo, simbolo della forza che lega il devoto all’eterna beatitudine del Sé; la terza mano, rivolta al devoto, è in un atto di benedizione (abhaya); la quarta mano tiene un fiore di loto (padma), che simboleggia la più alta meta dell’evoluzione umana.
Ganeśa è anche definito Omkara o Aumkara, ovvero “avente la forma della Om (o Aum)” . Nella regione del Tamil Nadu, Vinayaak, “Porta doni”, è tuttora uno dei molti nomi di Ganeśa, il dio dalla testa di elefante, la divinità più diffusa in India. Le origini del suo culto, che fu assorbito relativamente molto tardi dall’Induismo, si perdono nella notte dei tempi. Secondo un’antica leggenda, che corrisponde alle credenze di popolazioni tribali preinduiste, Ganesh apparve sullo sfondo della prima alba quando il suono dell’OM vibrò attraverso il Nulla. Sotto la forma di Nritya Ganapati, “Ganeśa danzante”, cominciò a muoversi armoniosamente ruotando e turbinando, dando forma e leggi al nuovo Universo. Ne deriva che Ganeśa era venerato dai suoi primitivi fedeli, specialmente nelle regioni agricole del Sud e dell’Ovest, non come divinità secondaria ma addirittura come l’idea stessa dell’OM creatore del mondo, l’incarnazione stessa di Brahman.
Basti pensare che il simbolo dell’OM, rappresentato in tutta l’India come una specie di E rovesciata, nella regione di Tamil Nadu assume la forma di una testa di elefante. Infatti, la forma del suo corpo ricalca il contorno della lettera sanscrita che indica il celeberrimo Bija Mantra; per questo Ganeśa è considerato l’incarnazione del Cosmo intero, Colui che sta alla base di tutto ciò che è manifesto (Vishvadhara, Jagadoddhara). In lingua Tamil, la sacra sillaba è indicata da un carattere la cui forma ricorda la sagoma della testa d’elefante di Ganeśa Questo particolare è simbolo dell’identificazione di Ganeśa con la Om, l’identificazione di Dio con il Verbo (“In principio era il Verbo, / il Verbo era presso Dio / e il Verbo era Dio.” Giovanni 1,1), ovvero il suono primordiale che da Lui scaturisce generando l’intero universo manifesto.
La zanna spezzata di Ganeśa, come si è visto, indica principalmente la capacità di superare o “spezzare” la dualità; tuttavia, questo è un simbolo che può assumere vari significati.
La cavalcatura di Gaṇeśa è un piccolo topo (Mushika o Akhu), che rappresenta l’ego, la mente con tutti i suoi desideri, la bramosia dell’individuo; Ganeśa, cavalcando il topo, diviene padrone (e non schiavo) di queste tendenze, indicando il potere che l’intelletto e la discriminazione hanno sulla mente Inoltre il topo (per natura estremamente vorace ), viene spesso raffigurato a fianco di un piatto di dolci, con lo sguardo rivolto a Ganeśa mentre tiene un boccone stretto tra le zampe, come in attesa di un suo ordine; rappresenta la mente che è stata completamente assoggettata alla facoltà superiore dell’intelletto, la mente sottoposta ad un ferreo controllo, che fissa Ganeśa e non si accosta al cibo se non ne riceve il permesso. Ma questa relazione col topo, estremamente importante, può assumere un altro significato se si osserva con attenzione cosa hanno recentemente dichiarato gli scienziati a riguardo e cioè che gli elefanti discendono proprio dai topi. Repubblica 26-3-2007,
È interessante notare come, secondo la tradizione, Ganeśa sia stato generato dalla Madre Parvati senza l’intervento del marito Śiva; infatti Śiva, essendo eterno (Sadashiva), non sentiva alcuna necessità di avere figli. Così Ganeśa nacque dall’esclusivo desiderio femminile di Parvati di creare. Vedete qualche riferimento con la tradizione cristiana? Di conseguenza, la relazione di Ganeśa con la propria madre è unica e speciale. Questa devozione è la ragione per la quale la tradizione dell’India del sud lo rappresenta come celibe. Nell’India del nord, invece, Ganeśa è spesso raffigurato sposato alle due figlie di Brahma: Buddhi (intelletto) e Siddhi (potere spirituale). In altre raffigurazioni le sue consorti sono Sarasvathi (dea della cultura e dell’arte) e Laksmī (dea della fortuna e della prosperità), a simboleggiare che queste qualità accompagnano sempre colui che ha scoperto la propria Divinità interiore. La testa di elefante e il corpo corto e grasso attirano i bambini, ma agli adulti egli appare ridicolo.
Tuttavia non bisogna lasciarsi ingannare dall’aspetto grossolano, perché Ganeśa è il patrono di coloro che hanno profondo giudizio e non si lasciano fuorviare dall’esteriorità. Chi non riesce a vedere il Divino in Ganeśa rimane preda della mente razionale, situata nell’emisfero sinistro del cervello, che rappresenta l’ostacolo maggiore sulla via dell’evoluzione spirituale. L’accettazione di Ganeśa come forza divina calma la mente razionale e tutti i suoi dubbi, i nostri più grandi nemici. Con il semplice esercizio di invocare Ganeśa, pregandolo, rendendogli omaggio e arrendendosi a lui, la mente razionale, assoggettata, è posta sotto controllo. È per questo che Ganeśa viene adorato come il grande distruttore degli ostacoli.
Articolo a cura di : Il Percorso Profondissimo
Fonti: https://www.carpeoro.com/dioganesa.php